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Friday, 03 May 2024
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           Gv 20, 7: 'in una posizione unica'?
 
 
 
Il problema
 
In  “Dicono che è risorto” Vittorio Messori espone, dandone una valutazione prudentemente positiva, la tesi di don Antonio Persili (presentata in Sulle tracce del Cristo risorto, ed. Casa della stampa, Tivoli, 1988) secondo cui l’espessione entetuligménon eis héna tópon di Gv 20, 7 significherebbe ‘avvolto in una posizione unica’.
A giudizio di Persili, tutto il passo (vv. 5-7) andrebbe tradotto come segue (citiamo dal testo di Messori):
 
“(Giovanni) chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.
 
Per confronto, riportiamo il v. 7 nell’originale greco:
 
“… kaì tò soudárion, hò ên epì tês kefalês autoû, ou metà tôn othoníôn keímenon allà chôrìs entetuligménon eis héna tópon”.
 
È opportuno precisare, benché sia irrilevante agli effetti della nostra analisi linguistica, che il sacerdote ritiene la propria interpretazione in grado addirittura di “dimostrare in modo inequivocabile la storicità della Risurrezione”; pretesa da cui Messori, che la cita, prende saggiamente le distanze. Nel sepolcro, secondo Persili, si sarebbe prodotto il miracolo della risurrezione di Gesù e della sua “uscita” dai lini funerari, tra i quali il sudario sarebbe rimasto nella posizione che aveva quando era avvolto intorno al capo di Gesù, mentre le fasce si sarebbero naturalmente “afflosciate”.
 
Ci pare che tale ipotesi presti il fianco a varie obiezioni: obiezioni di natura metodologica (in primis la scarsa attendibilità del racconto giovanneo, contraddetto da tutti i sinottici e difficilmente armonizzabile persino con la pericope della Maddalena alla tomba da cui è immediatamente seguito) e obiezioni di merito (la struttura d’informazione del v. 7, che senza dubbio vuole indicare la chiave del “mistero” nella diversità di collocazione e di aspetto sussistente tra sudario e fasce).
Qui non entriamo però in quest’ordine di problemi, che tocchiamo altrove (v. "La presunta 'prova' della Risurrezione", ne "I racconti della Risurrezione").  Ci limitiamo a dimostrare, con un’analisi testuale più tecnica, che anche sotto il profilo strettamente linguistico l’ipotesi di Persili non regge, in quanto prende le mosse da una traduzione del v. 7 basata su presupposti a nostro avviso erronei.
 
 
Le pecche della traduzione
 
Messori parla di “proposta certamente inedita, magari ‘scandalosa’ per qualche esperto, ma che in realtà non sembra avere contro motivazioni filologiche serie” (p. 136). A noi, come abbiamo detto, pare invece che contro la proposta stiano motivazioni filologiche serissime; anzi, decisive. Quanto poi al suo presunto carattere di “inedito”, si veda quel che si dirà nella “Nota storica” conclusiva.
 
I capisaldi dell’interpretazione di Persili, polemico con la versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana (CEI), sono i seguenti:
1) entetelugménon va reso con ‘avvolto’ anziché con ‘piegato’;
2) chôrís non significa ‘separatamente, in disparte’, bensì ‘al contrario’;
3) tópos non designa un ‘luogo’, ma una ‘posizione’;
4) heîs (da cui l’accusativo héna) equivale a ‘unico’ (nel senso di ‘straordinario, incomparabile’; Messori offre su questo punto una conferma tratta dal “Kittel”).
 
Non abbiamo nulla da obiettare circa il primo punto. Consideriamo invece completamente infondate le tesi espresse negli altri tre. Cerchiamo qui di dimostrarlo esaminandole nell’ordine.
 
a) Chôrís Nell’uso che il Rocci definisce “traslato” vale ‘in modo diverso’, ma solo in funzione di complemento predicativo (avverbiale anziché aggettivale), o dell’oggetto (come nel primo e nel terzo esempio che figurano nel dizionario) o del soggetto (come nel secondo). Assolutamente niente a che vedere dunque con il valore negativo-olofrastico (di negazione cioè di tutta la frase precedente) che pretenderebbe di attibuirgli Persili con la disinvolta indicazione “differentemente, al contrario”, quasi che i due termini fossero equivalenti.
Chôrís può in certi casi significare ‘differentemente’, ma non può significare, come Persili vorrebbe, “al contrario”.
 
In ogni caso, per conferirgli il significato sostenuto dall’autore, occorrerebbe farne un inciso, immaginandolo racchiuso in una coppia di virgole, che nell’originale ad ogni buon conto non ci sono. Ciò perché l’interpretazione di Persili richiede che la contrapposizione impostata dai correlativi ou …, allà (‘non …, ma [ovvero ‘bensì’]’) sia da intendersi tra i due participi (‘non disteso …, ma avvolto’).
Se non che, in mancanza di indicazioni particolari (quali sarebbero appunto le due virgole segnanti l’inciso), essa può solo applicarsi ai due termini che seguono immediatamente i correlativi, ossia metá (‘con’, ‘insieme a’) e chôrís (‘separatamente’, ‘in un luogo a parte’); tanto più che tra di essi sussiste una chiara contrapposizione semantica. Quindi: ‘non insieme a …, bensì separatamente’.
È perciò senz’altro sbagliato affermare che il sudario “si trovava in una posizione diversa dalle fasce per il corpo e non in un luogo diverso”. In effetti, il testo intende esplicitamente negare una contiguità tra il sudario e le fasce.
 
b) Tópos Sorprendente la disinvoltura con cui viene attribuito al termine il valore di ‘posizione’ nel senso di ‘atteggiamento del corpo, di una persona, di un arto e simili’, ossia di mutua disposizione delle parti di una struttura (che è l’accezione n. 3 tra quelle elencate dallo Zingarelli per il lemma posizione, ed è il normale significato di positura).
È vero che il termine “posizione” usato come definiens è reperibile nel Rocci (peraltro senza corredo di esempi). Ma il suo valore è semplicemente quello di ‘luogo in cui una cosa è situata o si trova’ (accezione n. 1 dello Zingarelli), ossia come ‘punto dello spazio in cui qualcosa è posto’: si pensi alla “posizione astronomica”, quale è ad esempio la posizione di un pianeta nel cielo.
L’equivoco sarebbe stato evitato osservando che l’accezione di tópos indicata dal Rocci col termine ‘posizione’, ‘regione’ (sic: regione del cielo, evidentemente) viene esplicitamente qualificata come propria del linguaggio dell’astronomia ; tanto che si citano, come unici autori di riferimento, Vezzio Valente e Tolomeo. Tópos pertanto vale semplicemente ‘luogo’, ‘posto’, ‘punto dello spazio’.
Ciò conferma pienamente quanto si è detto sopra circa il valore di chôrís.
 
c) Eis héna Va detto innanzitutto che è assurdo polemizzare contro chi traduce “in un luogo a parte” accusandolo di aver reso in modo infelice eis héna tópon; “in un luogo a parte” infatti è in ogni caso traduzione di chôrís, quale che sia il valore che si voglia poi dare ad eis héna tópon.
Sbaglia quindi chi afferma – come fa Messori presentando la tesi di Persili – che “è con questi tre termini che la traduzione dei vescovi italiani può costruire la frase ‘in un luogo a parte’”. A tale conclusione egli arriva perché, dice, “stando alla Cei – e, bisogna pur dire, stando al senso immediato per chiunque sappia anche solo un po’ di greco – il loro significato sembra evidente. E, cioè: ‘in un luogo’”.
                                                                                                                   
Qui occorre però fare una precisazione. La versione CEI da cui Messori cita è quella della prima edizione, del 1971, riveduta nel ’74. Nei confronti di tale versione la sua critica, come si è detto, non si giustifica (e vale la pena di notare che questa è anche la versione che ha occasionato e nutrito la polemica di Persili). Ma la nuova edizione, del 1997, fornisce un testo decisamente peggiorato: “… ed entrò nel sepolcro e vide i teli ancora là, e il sudario, che era stato sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo”.
A parte la bizzarra scelta di rendere “giacente/i” con l’avverbio “là” (riducendo keîsthai al valore di ‘esserci’, ‘sussistere’, ‘trovarsi’), vediamo che il sudario, anziché essere – come nella versione precedente - “piegato in un luogo a parte”, adesso è “in disparte, ripiegato in un luogo”. Stando così le cose, eis héna tópon, che nella versione precedente di fatto non veniva tradotto, risultando ridondante rispetto a chôrís, ora viene tradotto e messo in bella vista a fine periodo, ma in modo oserei dire totalmente … desemantizzato. “Ripiegato in un luogo” infatti non significa assolutamente nulla di più rispetto al semplice “ripiegato”. 
L’errore (di cui ci riesce difficile intuire le motivazioni) sta nell’aver considerato il numerale heîs (accusativo héna) alla stregua dell’articolo indeterminativo italiano, mentre quest’ultimo non ha un vero equivalente in greco, così come non l’ha in latino. Heîs, al pari del latino unus, quando non sia numerale esplicitamente o implicitamente contrapposto ad altri numeri, ha di regola il valore intensivo di ‘uno solo’. (1)
 
Nel tentativo di trovare un significato soddisfacente all’enigmatico passo di Giovanni, sono state proposte altre accezioni di heîs.
 
La prima è ‘stesso, medesimo’.
 Ad esempio, scrive J.-L. Carreño Etxeandia: “e il sudario […] non come[sic] le tele, per terra, ma al contrario, arrotolato nel medesimo luogo”); e F. Spadafora: “e il sudario […] giacente (anch’esso), non con i pannilini, ma a sé stante, avvolto com’era stato avvolto, nella stessa posizione (di prima)”.
Si tratta a nostro giudizio di una forzatura ingiustificabile, suggerita solo dal desiderio di rendere significativo a qualunque costo (e per di più in un modo teologicamente condizionato) un testo ribelle alla decifrazione. In realtà, a heîs è completamente estraneo il senso di hautós. (2)
 
Una seconda accezione di heîs escogitata per dare senso a Gv 20, 7 è quella di ‘unico, straordinario, incomparabile’, ossia l’accezione su cui scommettono appunto Persili e Messori. Anche in questo caso dichiariamo il nostro scetticismo, ma non intendiamo entrare nel merito del problema, e accettiamo la congettura come ipotesi di lavoro in quanto formalmente legittimata dalla lessicografia.
Senonché, a convincerci ulteriormente della sua implausibilità stanno considerazioni di ordine logico-sintattico, ossia il contesto linguistico immediato in cui héna si trova inserito: eis héna tópon.
 
  Eis infatti, essendo di regola preposizione di moto (3), introduce il sintagma indicante il luogo in cui si conclude (o la direzione a cui tende) il movimento indicato dal verbo (qui il participio perfetto passivo di “avvolgere”). Nel nostro caso però non può indicare la posizione “unica” assunta dal sudario al momento dell’avvolgimento avvenuto alla sepoltura, poiché in tale momento la posizione del telo non era affatto “unica”, bensì assolutamente normale, trattandosi di avvolgimento intorno al capo del cadavere.
Ammesso (e non concesso, come si è detto) che tópos possa significare ‘positura’, la posizione “unica” non sarebbe il risultato diretto dell’avvolgimento, ma del successivo ”sfilarsi” della salma da un sudario che era stato “avvolto” trentasei ore prima. Con entetuligménon siamo di fronte a una sorta di “Zustandspassiv”, un passivo cioè indicante stato, condizione, come nel caso di “La porta è aperta” (ossia si trova aperta) in contrapposizione a “La porta è aperta (da qualcuno)”, ossia “viene aperta”; dove il participio del verbo “aprire” ha valore aggettivale nel primo caso e verbale nel secondo.
Nel nostro testo si ha in modo chiarissimo la prima situazione, ossia quella dello stato, della quiete, in quanto il sudario, a suo tempo "avvolto", ora si trova in una determinata posizione (e ciò in conseguenza non di un proprio movimento, ma della dislocazione di qualcos’altro – il corpo - che non viene linguisticamente indicato). Se dunque l’evangelista avesse voluto esprimere il concetto che il Nostro gli attribuisce, avrebbe con tutta probabilità usato il dativo di stato in luogo: en henì tópô(i).
È contrario allo spirito della lingua greca impiegare eis e l’accusativo per indicare la situazione immaginata da Persili. L’accusativo héna può solo indicare una situazione diversa da quella che si ha nel nostro caso, ossia una situazione direttamente e immediatamente prodotta dal movimento indicato dal verbo entulísso; anche se, dopo, tale situazione perdura, come indica il participio perfetto.
Ciò equivale a dire che l’avvolgimento che porta il sudario eis héna tópon non può essere quello del telo intorno al capo di Gesù, ma un altro, successivo, che qualcuno ha compiuto sul sudario stesso.
 
Del resto, quel che vale per il greco vale in questo caso anche per il latino. Non per nulla la Vulgata, come abbiamo anticipato nella nota 3, traduce con involutum in unum locum: con l’accusativo dunque, non con l’ablativo. San Gerolamo aveva capito benissimo che il “luogo” in questione non era che il punto di arrivo del movimento indicato dall’involvere il sudario su se stesso (“avvolto sino a venire a trovarsi in ...”).
Così come aveva ovviamente considerato héna un numerale col valore intensivo di ‘uno solo’, da rendersi quindi con unum
 
Ricapitolando: la traduzione che ci pare di poter proporre per eis héna tópon è quella che ne fa un equivalente di eis hén (latino in unum, ad unum): il sudario è stato per così dire ridotto “ad un solo luogo”, cioè raccolto, avvoltolato, “compattato”, sicché occupa poco spazio, a differenza delle fasce. Forse l’equivalente italiano più adeguato è ‘ravvolto su se stesso’.
 
N. B. Come si è detto nella nota 3, ciascuna delle tre argomentazioni svolte ai punti a), b) e c) è sufficiente, da sola, ad inficiare la tesi di Persili. S’intende che la sinergia fra di esse accresce notevolmente il peso della confutazione.
 
È opportuno precisare che non si intende qui discutere se sia possibile interpretare othónia come ‘fasce’ anziché come ‘bende’, e keímenon come ‘disteso’, ‘appiattito’ (ossia ‘afflosciato’) anziché come ‘a terra’, ‘appoggiato al suolo’ (ma qui la prima ipotesi, che è quella caldeggiata da Persili, pare preferibile).
Tanto meno si intende affrontare la vexata quaestio dei rapporti tra gli othónia giovannei e la “sindone” dei Sinottici.
Tali problemi esulano dai limiti di un’analisi puramente linguistica.
 
 
Conclusione
 
 Fatte queste precisazioni, possiamo tirare una conclusione dall’analisi testuale che abbiamo condotto.
 
Due sono i concetti che il testo di Giovanni vuole sicuramente esprimere:
 
a) il sudario e le fasce (o bende) si trovano in luoghi diversi, non sono insieme;
b) il sudario, a differenza delle fasce che occupano molto spazio, è stato “trattato” in modo da occupare il minor spazio possibile ; si potrebbe anche pensare a una o due piegature iniziali seguite da un arrotolamento, come si fa con un tovagliolo da infilare nell’anello.
 
Oltre a ciò, il testo sembra suggerirema non più che suggerire - che, mentre il sudario rivela l’intervento consapevole di una mano umana, gli othónia si presentano in una condizione di naturale disordine (come scrive lo stesso Messori: “la tomba presentava un aspetto insieme ordinato e disordinato” [p. 122]).
 
Altro il testo non dice.
Ogni ipotesi esegetica ed ermeneutica presenta quindi un margine di aleatorietà, ossia di arbitrarietà.
 
È evidente che si tratta di un testo ambiguo, volutamente enigmatico. Forse il discepolo prediletto, nel momento in cui si attribuiva il primato nell’approdo alla fede rispetto a Pietro, non ha voluto calcare la mano, lasciando tutto nel vago, “avvolto”, si può ben dirlo, in un velo di mistero.
Non è un caso che due maestri degli studi biblici come sant’Agostino e san Tommaso (il quale mostra di preferire la spiegazione agostiniana a quella del Crisostomo, che pure cita) abbiano, dal punto di vista dell’esegesi ufficiale, frainteso tutto il passo, interpretando il “credette” del v. 8 semplicemente nel senso di un prestar fede alle parole della Maddalena annuncianti la scoperta del sepolcro vuoto. E ciò soprattutto a causa dell’infelicissimo nesso logico fra tale versetto e il successivo.
 
Anna Maria Cenci, presentando la proposta d’interpretazione sopra citata di Carreño Etxeandía, afferma, con tono che vorrebbe essere rassicurante: “È stato detto che Giovanni, come Paolo, pensava in ebraico e scriveva in greco”. Ora, esprimersi in una lingua pensando in un’altra è proprio la premessa migliore per esprimersi male, sino al punto di non farsi capire. Dobbiamo concludere che il quarto evangelista vi è mirabilmente riuscito.
 
Il che equivale a dire che nessuna traduzione potrà mai risultare del tutto soddisfacente. Non sono le traduzioni “infelici” a rendere oscuro il testo.
Assurdo quindi prendersela con i traduttori della Bibbia CEI o della TOB o delle innumerevoli altre prestigiose versioni che si sono susseguite nei secoli, a partire dalla Vulgata, nelle maggiori lingue di cultura europee.
Assurdo pensare che i migliori cervelli si siano per secoli e secoli ingannati, non riuscendo a rinvenire la chiave segreta per interpretare correttamente quella frasetta in cui, si arriva a dire, si troverebbe nientemeno che la prova definitiva della Risurrezione!
Assurdo appellarsi pateticamente, come fa appunto la Cenci, ai traduttori e a tutti gli altri addetti ai lavori perché provvedano a “riparare” alla fatale incomprensione perdurante ormai da quasi duemila anni.
 
Se il “vero” significato di questi versetti, e del v. 7 in particolare, potesse realmente essere scoperto, togliendo di mezzo ogni ambiguità, grazie allo scoop, al colpo di genio di un traduttore, dovremmo concludere che in cielo si stanno divertendo un mondo a contemplare gli sforzi dei vari Persili affannantisi alla decrittazione dei rebus biblici.
Dieu s’amuse. Un Dio dunque non solo “nascosto”, ma anche un po’ frivolo e giocherellone.
 
Per concludere su questo specimen di “filologia acrobatica”, proviamo ad esplicitare le modalità di redazione dei testi evangelici che essa presuppone.
Il procedimento sarebbe più o meno questo: lo Spirito Santo dà all’evangelista l’intenzione di scrivere x, ma non interviene se questi, volendo scrivere x, si sbaglia (o quanto meno si esprime male) e scrive y ; poi però suggerisce all’esegeta (magari il Persili di turno, dopo una ventina di secoli) che dove c’è scritto y si deve intendere x. E così tutto va a posto.
 
 
     NOTA STORICA SULLA TESI DI PERSILI E MESSORI
 
     
      La tesi qui confutata e altre simili (come quella di Carreño Etxeandía di cui si è fatta menzione) non sono affatto così nuove e rivoluzionarie come si potrebbe pensare, e come mostra di credere lo stesso Messori.
      Notizie sulla storia dei precursori di Persili & C. in epoca moderna (si parte dal 1901!) si possono ad esempio leggere, con le indicazioni bibliografiche del caso, in:
R. E. Brown, The Gospel according to John XII-XXI, Doubleday [The Anchor Bible 29A], 1970 (pp. 986-87) [trad. it.: Giovanni: commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi, 1991];
X. Léon-Dufour, Lecture de l’Évangile selon Jean. Tome IV, Éditions du Seuil, Paris 1996 [trad. it.: Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1998, IV, (pp. 265 ss.)];
G. R. Beasley-Murray, John, Word Books [Word Biblical Commentary 36], Waco, 1987 (p. 372).
 
Vanno ricordati tra gli altri i saggi di K. Bornhäuser (1947) e di E. G. Auer (1959), entrambi miranti ad avvalorare la tesi di uno sfilamento del cadavere dai lini che, in virtù degli aromi e degli unguenti di cui erano impregnati, avrebbero conservato la forma del corpo intorno al quale erano avvolti. Ma la situazione delineata da Persili, con le fasce giacenti e il sudario per il capo conservante la propria forma dopo l’uscita della salma, si trovava già in un saggio di H. Latham (The Risen Master) uscito, come si è accennato, addirittura nel 1901 e corredato di un disegno espressamente eseguito da un pittore.
A questo proposito va detto comunque che “l’iconografia bizantina […] ripropone con notevole frequenza l’idea di un sudario ancora perfettamente avvolto sebbene vuoto”: così scrive Carola Vizzacaro (citata da Andrea Tornielli) in una tesi di laurea in Filologia patristica all’università “La Sapienza” di Roma.
Tra i precusori della tesi di Persili di un Gesù sfilatosi dai lini lasciati intatti, in internet Andrea Carancini ricorda anche Francesco Spadafora, da noi sopra menzionato, autore di un libro fondamentale sull’argomento uscito nel 1978 ma già in parte anticipato da uno scritto del 1952 (http://www.kelebekler.com/cesnur/txt/messori.htm: si tratta di un articolo polemico dedicato agli “errori di Messori sulla Resurrezione di Gesù”). Spadafora a sua volta segnala come precursori della sua tesi addirittura san Cirillo di Gerusalemme e san Cirillo di Alessandria.
 
Sul fronte più specificamente linguistico, vanno ricordati in particolare due studi, di C. Lavergne (1961) e di M. Balagué (1966), che puntano (come quello del già citato Carreño) sull’individuazione di semitismi nel testo giovanneo: ad esempio, metá significherebbe ‘come’ (valore occasionalmente assunto dall’ebraico ‘im), e il background costituito dall’ebraico l(e)bad min autorizzerebbe la versione di allà chôrís con ‘ma al contrario’. Il saggio di Balagué, pubblicato su una rivista importante come “Estudios Biblicos”, reca un titolo impegnativo e molto “alla Persili”: La prueba de la Resurrección.
Beasley-Murray giudica tutte queste congetture compatibili col testo greco, ma ritiene sia impossibile dire se questo fosse realmente il pensiero dell’evangelista.
 
Noi invece, per quanto riguarda la proposta di Persili, abbiamo cercato di mostrare che vi sono anche ragioni linguistiche che militano contro tale tesi; ciò in contrasto con l’opinione di Messori.
E abbiamo argomentato partendo da un testo, quello di Messori appunto, che ha contribuito a portare all’attenzione di molti credenti una problematica per sua natura monopolio di specialisti. (4)
 
 
(1) È vero che nel greco neotestamentario si manifesta una certa tendenza ad usare heîs nel senso attenuato di tis, sino a farne una sorta di articolo indeterminativo (sviluppo simile a quello del lat. quidam). Senonché:
 
- si tratta per lo più di uso non aggettivale, bensì pronominale (in genere con genitivi partitivi retti o meno da ek: henì tôn politôn (Lc 15, 15), heîs ek tôn presbutérôn (Ap 7,13); 
- quasi sempre i sostantivi in questione sono nomi comuni di persona.
 
Tali due caratteristiche quindi già differenziano questi casi da quello di eis héna tópon.
Oltre a ciò, gli esempi che si citano di questo valore attenuato di heîs sono relativamente poco numerosi, e nessuno è tratto dal quarto vangelo.
 
Sorprende quindi non poco il fatto che lo Zerwick, al contrario di Blass-Debrunner e Rusconi, presenti il fenomeno quasi come fosse la regola anziché l’eccezione. E ancor più sorprende che il Persili, dopo averlo citato, comprendendo (giustamente) di non poter sottoscrivere l’interpretazione desemantizzata “in un luogo”, senta il bisogno di giustificare la propria deroga alla norma:
“Questa regola non è così rigida come potrebbe sembrare. Infatti nel Nuovo Testamento vi sono numerosi esempi in cui "heîs" spesso assume il valore di "unico" nel senso di "uno solo"”.
E provvede a snocciolare una mezza dozzina di esempi, ovviamente facilissimi da reperire.
Noi naturalmente ci associamo, limitandoci a segnalare che, oltre che in eis héna tópon, héna compare nel quarto vangelo in quattro soli versetti. In due di questi (18,39 e 20,12) ha il valore di numerale (usato senza sostantivo, in funzione pronominale); negli altri due (8,41 e 18,14) ha il chiarissimo significato di ‘uno solo’. Se dunque nel v. 7 avesse il valore di articolo indeterminativo (per di più riferito a un nome astratto), si tratterebbe di una sorta di hapax giovanneo.
 
(2) Lo stesso si potrebbe dire del lat. unus. Esempi come uno tempore venire, unum atque idem dicere, uno ore loqui, che parrebbero avallare la tesi di unus avente il senso di ‘stesso, medesimo’, indicano in realtà una corrispondenza tra più elementi di un insieme e l’unico elemento di un altro insieme. Esprimono quindi una coincidenza tra i molti e l’uno, non tra due singoli elementi, quale si ha nei casi di identificazione, come in “quest’uomo è lo stesso che ha telefonato ieri” e “il sudario era nella stessa posizione (di prima)”.
 
 
(3) Partiamo da questo principio nonostante sia noto che nel greco ellenistico cominciò a manifestarsi l’impiego occasionale di eis col valore di en, ossia per indicare lo stato in luogo.
 
A sostegno della nostra tesi citiamo innanzitutto il “Vocabolario del greco del Nuovo Testamento” di Carlo Rusconi:
eis nel NT tende a sinonimia con en; ma tale sinonimia, opinabile [sic], a. pare dover ridursi ad alcuni passi lucani: Lc 4, 23; At 7, 4.12.53; 8, 23; 19, 22; 22, 5, cui forse è da aggiungere Eb 11, 9; b. mentre altrove appare comunque dopo verbi d’azione: Lc 4, 44; At 16, 24; 23, 11; 25, 4; Fil 2, 22; c. oppure come conclusione d’un moto espresso: Mt 2,23; […]; d. oppure sottinteso: Mc 10, 10 […].”
 
Per il Blass/Debrunner (ediz. ted. del 1990, § 205) l’impiego di eis in luogo di en in senso locale si ha solo in Marco, in Luca (spesso negli Atti), raramente in Giovanni; mai, salvo un paio d’eccezioni, nelle lettere e, “fatto ancor più vistoso”, mai neppure nell’Apocalisse, tradizionalmente attribuita all’autore del quarto vangelo (si potrebbe per la verità ricordare Ap 1,11, per cui vale comunque quanto si dice qui appresso per Gv 8, 6).  
 
È facile verificare che i passi del vangelo di Giovanni si contano sulle dita di una mano:
 
- nella pericope dell’adultera (8, 6.8; la pericope peraltro è quasi certamente non giovannea, forse proprio di provenienza lucana) si trovano due formule pressoché identiche: kátô kúpsas (v. 8: katakúpsas) (kat)égrafe eis tên gên. Il “moto” è implicito nel chinarsi di Gesù, e soprattutto nel fatto di scrivere, per di più col dito, incidendo le lettere nella sabbia. Diverso sarebbe naturalmente se si parlasse di qualcosa che è scritto sul terreno;
 
- in Gv 19, 13 eis tópon può facilmente spiegarsi con ekáthise: analogamente a quanto si è detto dello “scrivere” e dell’ “essere scritto”, “sedersi” è altra cosa rispetto al “sedere”, ossia all’ “essere seduto”; tanto più che, anche in questo caso, vi è il precedente movimento di Pilato, il quale giunge al Litostroto conducendo fuori (cfr. êgagen éxô) Gesù.
 
- in Gv 20, 19.26 si descrive con due formule quasi identiche l’improvvisa comparsa di Gesù nel cenacolo: êlthen/érchetai ho Iêsoûs kaì éstê eis tò méson. Qui è chiarissima la sottolineatura del movimento con cui Gesù “viene” e, per così dire, “si piazza” nel mezzo della stanza. Simile è il caso di Gv 21, 4: éstê Iêsoûs eis tòn aigialón: Gesù appare improvvisamente ritto sulla riva quasi fosse piovuto dal cielo; l’accusativo concorre a dare l’impressione della dinamicità della scena.
 
Resta infine il passo forse più significativo per il nostro discorso, Gv 1,18. Ignace de la Pottery arriva a tradurre “ho ôn eis tòn kólpon [toû patrós]” con “tornato nel seno” anziché col tradizionale “che è nel seno”; e tale interpretazione, in virtù della riconosciuta “forza dinamica” del sintagma, viene parzialmente accolta dal Poppi nella sua “Sinossi”: “(rivolto) verso il seno”. Da notare anche che la Nova Vulgata, di tre decenni or sono, traduce con “qui est in sinum patris” (contro il “sinu” di san Gerolamo).
 
Come si vede, risulta pienamente confermata l’indicazione del Rusconi secondo cui eis in luogo di en è di impiego piuttosto raro e “appare comunque dopo verbi d’azione” o “come conclusione d’un moto espresso […] oppure sottinteso”.
 
Ma la circostanza che più di ogni altra ci induce a vedere in eis héna tópon una implicita indicazione di moto è il fatto che, mentre in tutti gli altri casi sopra esaminati la Vulgata traduce con l’ablativo, per entetuligménon eis héna tópon non esita a tradurre, come si dirà qui appresso, “involutum in unum locum”. San Gerolamo dunque mostra di aver inteso l’uso di eis in luogo di en come indicazione del concludersi di un movimento. Eppure il santo aveva certo la piena, perfetta padronanza sia del latino che del greco ellenistico.
 
Va osservato comunque che ciascuno dei tre elementi esaminati (chôrís, tópon e eis héna), anche considerato singolarmente, è sufficiente per invalidare l’interpretazione di don Persili. Tale conclusione negativa quindi rimane a nostro giudizio giustificata anche nel caso che non si voglia condividere quanto diciamo circa eis e la particolare natura del movimento indicato da entetuligménon.
 
 
(4) Ora il “paragrafo centrale” del libro di Persili, contenente il nocciolo dell’argomentazione, è disponibile in internet:             
 
http://www.consorziores.it/locale/giovanni.htm          
 
 
 
 

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